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Come si lavorerà in futuro?

Il mondo del lavoro è in costante evoluzione. Nell'intervista Thomas Bauer, responsabile della politica economica di Travail.Suisse, spiega quali opportunità e sfide comporta la crescente flessibilizzazione degli orari di lavoro e quali modelli di lavoro potrebbero acquisire maggiore importanza in avvenire.

Il mondo del lavoro sta cambiando rapidamente e per molte persone è sempre più difficile separare il lavoro dal tempo libero. Come vivete questi sviluppi?

Condivido appieno questa constatazione. Un fattore determinante è la crescente flessibilizzazione e sfaccettatura degli orari di lavoro. I datori di lavoro occupano con preavvisi sempre più brevi ed esigono sempre più straordinari. In molti rami economici le giornate lavorative sono interminabili e spezzate in più turni, con lunghe interruzioni non retribuite nel pomeriggio, ad esempio. A ciò si aggiunge la costante reperibilità consentita dalla diffusione degli smartphone e la possibilità di lavorare da casa. Queste tendenze si osservano da tempo e sembrano inarrestabili, anche a livello politico.

L'iniziativa parlamentare Burkart è un esempio lampante: chiede per le persone che svolgono il lavoro da casa, e possono quindi determinare autonomamente e in gran parte il proprio orario di lavoro, la possibilità di suddividerlo sull'arco di 17 ore, tra le 7 e le 23, anche la domenica e i giorni festivi. Questi concetti promuovono una società 24/7 in cui i confini tra lavoro e tempo libero sono sempre più sfocati.

Ma anche i dipendenti chiedono più flessibilità, per lo meno è quanto emerge da uno studio dell'Unione svizzera degli imprenditori.

Simili studi sono spesso concepiti in modo da favorire un determinato risultato. Alla domanda «Vorrebbe poter organizzare il suo orario di lavoro in modo flessibile?» la maggior parte delle persone risponde ovviamente di sì, ritenendola una soluzione ideale che soddisfa le esigenze individuali.

Ciò che queste indagini non considerano è che spesso la flessibilizzazione consente al datore di lavoro di distribuire meglio il carico di lavoro tra i dipendenti. Significa più lavoro serale, più straordinari, più lavoro di sabato o addirittura di domenica e una maggiore intensità del lavoro. La questione centrale della flessibilizzazione è sempre la stessa: chi decide quando lavorare? Il dipendente o il datore di lavoro? La flessibilità può essere positiva se significa reale libertà di scelta, ma diventa problematica se è unilaterale e aumenta la pressione sui dipendenti.

Di primo acchito, quindi, la flessibilizzazione sembra più positiva per i dipendenti di quanto non lo sia nella realtà?

È proprio questo il punto. Ho appena accennato ai problemi più comuni, ma può essere controproducente anche per i pochi dipendenti che possono davvero organizzarsi autonomamente: ci si riduce a lavorare al mattino quando i figli sono a scuola, pranzare con i bambini, poi lavorare due ore e aggiungere qualche altra ora la sera quando i figli sono a letto… Nel tempo, una simile frammentazione della giornata di lavoro è spesso logorante.
Inoltre, si crea una sottile pressione a dover essere sempre raggiungibili, soprattutto se i colleghi inviano e-mail o partecipano a videoconferenze la sera. Si ha così la sensazione di non riuscire mai staccare veramente la spina. A lungo andare questo tipo di flessibilizzazione causa problemi di salute, dai disturbi del sonno al burnout. La giornata lavorativa ha bisogno di confini chiari, altrimenti si trasforma in una ruota del criceto.

Il lavoro d'ufficio a domicilio è solo una parte del mondo del lavoro. Come si manifesta la flessibilizzazione in altri ambiti?

La crescente flessibilità interessa settori senza attività d'ufficio in misura addirittura maggiore. Un esempio lampante è il commercio al minuto: per soddisfare le mutate esigenze di consumo di una clientela 24/7, ai negozi viene chiesto di rimanere aperti sempre più a lungo, anche nei festivi. Per i dipendenti significa, oltre che lavorare di domenica, orari irregolari e giornate frammentate. Spesso il lavoro viene infatti concentrato nei momenti di maggiore affluenza – in genere due ore al mattino, due a pranzo e due la sera – intercalati da lunghe pause non retribuite che difficilmente possono essere impiegate in modo sensato. Inoltre, le giornate di lavoro si allungano fino a 12 ore o anche più.

Un'altra forma di flessibilità a cui assistiamo è un aumento degli impieghi precari, come il lavoro su chiamata o i contratti a tempo determinato. Questo fenomeno interessa molti settori come l'artigianato, l'edilizia, la vendita o le pulizie. Simili impieghi non offrono nessuna certezza finanziaria e non permettono di fare piani con un orizzonte più lungo. I datori di lavoro, invece, possono massimizzare i profitti trasferendo sui dipendenti una parte considerevole del rischio imprenditoriale.

In pratica, i dipendenti dovrebbero lavorare quando il carico è particolarmente elevato?

Esattamente, è un effetto diretto della crescente flessibilizzazione. Ad ogni modo, nella maggior parte dei rami economici l'intensità del lavoro è aumentata a prescindere da questo aspetto: si chiede di produrre sempre di più in tempi sempre più stretti. La nostra indagine annuale «Barometro del buon lavoro» mostra un preoccupante aumento dello stress e dell'esaurimento. L'accelerazione del lavoro e la concorrenza sempre più agguerrita hanno raggiunto livelli che molti lavoratori e lavoratrici non riescono più a sostenere.

Il numero crescente di lavoratori a tempo parziale potrebbe indicare che per molti il carico di lavoro sta diventando eccessivo. È una reazione diretta alla crescente pressione del lavoro?

L'aumento dell'occupazione a tempo parziale è principalmente riconducibile al fatto che oggigiorno nell'80% delle famiglie entrambi i genitori sono attivi. In passato era consuetudine che il padre lavorasse a tempo pieno, mentre la madre si occupava della casa e dei figli. Dato che nelle statistiche sull'occupazione compariva unicamente il genitore attivo, il tasso di occupazione medio era del 100%. Se anche l'altro genitore lavora, ma ad esempio al 20%, entrambi vengono inclusi nelle statistiche e il tasso di occupazione medio scende al 60% (100+20=120, 120/2=60), anche se in realtà la coppia lavora di più. Il lavoro a tempo parziale è aumentato, ma l'affermazione secondo cui tale aumento sia indice di pigrizia dei lavoratori è completamente falsa, soprattutto nel caso delle famiglie i cui entrambi esercitano un'attività lucrativa.

Chi trae vantaggio da questo aumento dell'occupazione a tempo parziale?

Il lavoro part-time è un'arma a doppio taglio. Se utilizzato in maniera opportuna, entrambe le parti possono trarne beneficio: i dipendenti riescono a conciliare meglio lavoro e vita privata, mentre i datori di lavoro possono organizzare l'impiego del personale in modo più flessibile. Tuttavia, il lavoro a tempo parziale non deve servire solo gli interessi dei datori di lavoro a discapito dei lavoratori.

Ciò che osserviamo è che l'occupazione a tempo parziale offre ai datori di lavoro un'ulteriore forma di flessibilizzazione. Spesso il personale a tempo parziale può essere impiegato in modo più semplice e flessibile, poiché la durata massima del lavoro stabilita dalla legge non viene in genere superata. Se una persona lavora più ore di quelle concordate, queste ultime sono considerate ore supplementari e non straordinari, per cui non è dovuto alcun supplemento. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di collegare la durata massima del lavoro al grado d'occupazione. Ma, a prescindere, servono altri approcci. Per molte persone, soprattutto nei rami economici a basso reddito, il lavoro a tempo parziale non è un'opzione realistica.

La settimana di quattro giorni è stata ripetutamente discussa come possibile soluzione. Questo modello potrebbe essere una valida risposta alle sfide del mondo del lavoro moderno?

La settimana di quattro giorni è spesso promossa come alternativa interessante, ma comporta diversi problemi. Distribuire le ore settimanali su quattro giorni, lavorando ad esempio dieci ore al giorno invece di otto, può funzionare per i dipendenti giovani e in buona salute; ma in molti casi questo modello è fisicamente e psichicamente provante, soprattutto per chi è più in là con gli anni o esercita una professione fisicamente impegnativa. Inoltre, crea problemi di conciliabilità tra lavoro e famiglia. A prima vista può sembrare allettante godere di un giorno libero in più a settimana, ma nella pratica i dipendenti sono ancora più esausti e si ammalano con maggiore frequenza. Per lo meno, questa è la nostra esperienza in diversi settori.

Quali approcci potrebbero effettivamente migliorare le condizioni di lavoro?

Una riduzione generale della durata del lavoro sarebbe molto più sensata. Con 45 o addirittura 50 ore settimanali, a seconda del settore, la Svizzera ha una durata del lavoro legale fra le più alte d'Europa. Portare a 38 ore la settimana di lavoro effettiva sarebbe un passo realistico. In alternativa si potrebbero introdurre giorni di ferie supplementari. Entrambe le misure favorirebbero il recupero delle lavoratrici e dei lavoratori e consentirebbero di conciliare meglio vita professionale e privata.

Nel complesso si lavorerebbe meno. L'economia e il benessere del Paese non ne risentirebbero?

Dipende dall'attuazione. È chiaro che solo il lavoro crea benessere. La questione cruciale, quindi, è se ridurre la durata del lavoro riduce di pari passo il rendimento del lavoro. Personalmente, ne dubito: una durata del lavoro inferiore migliora la salute dei lavoratori, aumenta la produttività e ripartisce meglio il lavoro retribuito tra donne e uomini.

Un esempio: stiamo assistendo a un forte aumento delle assenze per malattia, spesso causate da un sovraccarico di lavoro. Se le persone lavorano meno e rimangono perciò in migliore salute, a trarne vantaggio non sono solo loro, ma anche le aziende. A lungo termine andrebbe anche a beneficio del nostro sistema sanitario.

Quindi, se anche i datori di lavoro avrebbero tutto l'interesse a implementare orari di lavoro più salutari, perché non lo fanno?

In teoria sarebbe così, ma purtroppo nella pratica è spesso diverso. Molte aziende pensano a breve termine e considerano unicamente i costi immediati che potrebbero derivare da una riduzione della durata del lavoro. Trascurano il fatto che, a lungo termine, le assenze dovute a esaurimento sono molto più costose per l'intera società e spesso anche per le aziende stesse.

Inoltre, si teme di subire svantaggi competitivi se si offrono volontariamente migliori condizioni di lavoro e quindi si diventa più costosi, almeno nel breve periodo, mentre altri non lo fanno. È pertanto necessario che i contratti collettivi di lavoro o la legge prevedano le medesime regole per tutti, in modo che orari di lavoro più salutari si applichino all'intera popolazione attiva e non dipendano dalla buona volontà delle imprese. Il nostro lavoro sindacale punta a condizioni di lavoro salutari ed eque per tutti – ma, soprattutto, che consentano una vita anche oltre il lavoro.

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